Se mangi l’anguria con il vino, morirai. Lo hanno detto così, come avvertimento. Le leggende di sempre, quelle che circolavano nel quartiere, riacquistavano forza in quelle giornate calde. Dalla strada, una voce esausta annunciò l’offerta: “Anguria rossa, due pesos, signora!”. Senza muovermi dal letto, ascoltavo il concerto delle cicale, che vivevano nell’alloro, nascoste come pipistrelli durante il giorno. Un vento caldo e l’odore delle spirali filtravano attraverso le griglie metalliche intrecciate della finestra. Non passò molto tempo prima che un mare di lava si avvicinasse dal cortile. Erano gli anni 2000. Stavamo per bruciare (noi argentini non lo sapevamo ancora, ma questa è un’altra storia). Mia sorella, ricoperta di Rayito de Sol (protezione solare), non si mosse da Santa Pelopincho (marca di una piscina), protettrice delle persone che soffrono il caldo.
Il muro divisorio, scrostato e macchiato dal passare del tempo, e il muro del vicino sembravano avere vita. Muschiose e ricche di cellule aploidi, delineavano in modo assoluto la scena di febbraio. In quegli anni mi concentrai sulla forma dei funghi, che a volte erano quelli del volto di San Martin (eroe dell´independenza) e altre volte quelli di giglio. Più tardi ho cominciato a vedere anche la poesia di Marosa di Giorgio: i funghi (come noi) portano le iniziali del defunto da cui proveniamo. Noi eravamo lì, a contrastare il marciume. Dalle quattro e mezza del pomeriggio, Fernando, Natalia, Sebas e io abbiamo costituito un fronte unito, uno di quelli in cui è impossibile integrare rapidamente uno sconosciuto.
D’estate era così, all’altezza degli alberi della gomma e dei fichi, oppure seduti sul marciapiede, semplicemente sdraiati insieme. Natalia e io osservavamo i ragazzi che andavano e venivano in bicicletta in giro per la città, fermandosi agli angoli con le loro magliette La Renga e Hermética (gruppi musicali). Quando il fruttivendolo ci vedeva passare, usciva disperato dal suo negozio, chiedendoci di comprare sempre la stessa fiaschetta, quella con le mucche dipinte sull’etichetta. Esiste ancora. All’angolo, un altro vicino, “Il pazzo per il piccioni”, lavorava in un circo e spruzzava trucco sui suoi uccelli di razza. Viveva in quel mondo sotterraneo di sporcizia e colore che si respirava dalla strada.
A Wilde (cittá del comune di Avellaneda, Provincia di Buenos Aires) il carnevale era sempre una festa. O qualcosa sarebbe passato alla storia, oppure qualche mistero sarebbe stato svelato, come il giorno in cui il negoziante vinse alla lotteria con il numero 33, o quando scoprirono l’omosessualità del macellaio. Ricordo che se ne parlava molto. C’era stata una discussione in macelleria per un prezzo sbagliato e Don Aníbal gli disse: “Sei un frocio”. Sembra che il macellaio abbia afferrato Annibale per il collo e gli abbia fracassato la testa contro il muro. I vicini uscirono sul marciapiede e hanno dovuto chiamare l’ambulanza. Tutto così. E mentre accadevano queste cose, si stava svolgendo il carnevale.
Ora, nella mia vita adulta, eccomi qui, in questo appartamento in affitto a Caballito (quartiere della Cittá di Buenos Aires), a bere un vermouth sul balcone di sei metri quadrati, mentre il sole sta quasi tramontando. Penso che sia stata l’ultima estate che ricordo di aver trascorso nel quartiere.