Nella prima metà degli anni Novanta, mia madre l’estate metteva in affitto la mia camera da letto. Io mi spostavo a dormire sul divano letto del salone/cucina che costituiva la parte più consistente dei nostri 35 metri quadrati e la mia camera rimaneva libera. O così, diceva lei, oppure niente vacanze, perché non possiamo permettercele. Grazie al mio spostamento, potevamo andare a trovare a inizio settembre i miei zii nell’hinterland milanese, dove si erano trasferiti da qualche anno. Sai che gioia…
La tipologia degli affittuari era quasi sempre la stessa: turisti nordamericani di più di 50 anni che non parlavano una parola di italiano e che raramente rimanevano più di una settimana. Arrivavano con una carnagione rosea che diventava presto rossastra a contatto con il feroce sole estivo romano e spargevano un odore di fritto e sudore. I mesi di luglio e agosto erano un susseguirsi di visi rubicondi e accenti aspri, che per me avevano la funzione di quei salvaschermo automatici del computer, in cui l’immagine di sfondo cambia, ma si ha sempre l’impressione di guardare la stessa cosa.
Quell’anno però c’era una novità: in agosto sarebbe rimasta tre settimane Noha, una ragazza libanese di 25 anni che capiva un po’ l’italiano perché aveva vissuto per un periodo a Buenos Aires (per me il nesso fra questo aneddoto e la sua conoscenza, seppur scarsa, dell’italiano, rimaneva un mistero). Il suo arrivo era stato epifanico: alta, bionda, con un tatuaggio di un orsacchiotto con un cuore sulla spalla sinistra all’interno del quale c’era scritto “Saleh” (il suo fidanzato, come avrei scoperto qualche giorno dopo). Dall’alto (o piuttosto dal basso) dei miei 15 anni, mi ero innamorato subito. Era a Roma per un corso estivo d’italiano, che parlava a malapena, perché a settembre sarebbe andata a studiare in una prestigiosa (e carissima) scuola di design a Milano. Era di famiglia ricca, aveva viaggiato molto e Saleh, il fidanzato, viveva in quel momento a New York.
Intrappolato in un quartiere periferico lontano dal centro, in cui l’asfalto sembrava sciogliersi dopo ogni passo sotto il sole agostano, parlando con lei mi sembrava di viaggiare per il mondo: Beirut, New York, Buenos Aires. Mi aveva chiesto di parlarle in italiano, perché solo così poteva migliorare la lingua, ma d’altra parte in quale altra lingua avrei potuto parlarle? Il mio inglese era ridicolo…
Nel frattempo la città si svuotava sotto i miei occhi: i miei amici erano tutti partiti, ma ogni pomeriggio alle 15 passavo per il parco assolato dove andavamo a giocare a calcio. Non c’era nessuno e dopo i primi tentativi avevo anche evitato di portarmi il pallone, perché mi ero sentito a disagio a palleggiare per ore da solo sotto il caldo torrido, come se qualcuno potesse giudicare la mia solitudine. Però la città vuota mi piaceva: dopo pranzo, mentre mia madre riposava, uscivo da solo percorrendo l’Appia o la Tuscolana verso viale Togliatti, sperando di imbattermi in qualche amico rimasto in città o in qualche bellissima turista americana che per miracolo si sarebbe innamorata di me all’istante. Ma in quella zona di turisti non ce n’erano mai, e in fondo li capivo: che ci venivano a fare nella parte sudorientale di Roma? Non c’erano musei né monumenti, i palazzi più antichi erano le case popolari degli anni Sessanta, il cemento e il traffico facevano salire la temperatura almeno di cinque gradi e l’unico parco era abbandonato a se stesso, con l’erba gialla e le siringhe che si accumulavano giorno dopo giorno vicino ai pali delle porte del campo di calcio. Uscivo da solo, camminavo da solo e tornavo da solo, ma non ero triste. Nel tragitto parlavo continuamente con me stesso, inventavo storie e situazioni, che quell’estate riguardavano quasi sempre Noha: come avrei potuto conquistarla, in che modo si sarebbe innamorata di me, con quali strategie l’avrei fatta mia.
Un pomeriggio sono tornato più tardi perché mi ero perso nel mio girovagare afoso, mia madre non c’era, ma Noha sì. Era seduta sul divano – lo stesso divano sul quale avrei dormito e che avrebbe trattenuto il suo odore – e sembrava aspettarmi.
Volevo chiederti se domani ti va di accompagnarmi in giro per la città. Fra poco andrò a Milano e mi sembra di conoscere pochissimo Roma. Certo, avevo risposto io. Che cosa ti piacerebbe vedere?
A quel punto mi era parsa esitante. Mah, non so. Il Colosseo? Il Colosseo, avevo ribattuto. Ok, il Colosseo. Domani andiamo al Colosseo.
Io uscivo sempre a piedi, così avevo sviluppato una relazione particolare con lo spazio: niente era troppo lontano e la stanchezza non esisteva. Ma lei dopo 20 minuti era distrutta. Non ci arriva l’autobus al Colosseo? Mi aveva chiesto, ma io i tragitti degli autobus non li conoscevo. Abbiamo camminato ancora per più di un’ora, con Noha sempre più stanca e nervosa. Io ero entrato nel panico. Come cavolo si arrivava al Colosseo? Al centro non ci andavo mai, facevo sempre il tragitto inverso…
Ad un certo punto mi è apparso un monumento familiare. Eccolo! Ho gridato. Eccolo là! Il Colosseo, è il Colosseo!
Quello? Ha risposto lei ormai distrutta. Me lo aspettavo più grande. Ha fatto un paio di foro, poi ha chiesto a un vigile quale autobus ci avrebbe riportato a casa.
Sull’autobus non mi ha rivolto la parola. La mattina seguente mi ha chiesto dove poteva andare a sviluppare le foto. Le ho dato l’indirizzo, solo che il negozio avrebbe chiuso per l’estate. Non importa, le avevo detto per essere gentile, posso ritirarle io e spedirtele a Milano.
Agosto è finito, quando è iniziato settembre Noha era un ricordo estivo, né triste né felice, lontano. Quando sono andato a ritirare le fotografie, mia madre ha voluto vederle: qui è quando siamo andati al Colosseo, ma’.
Le ha guardate da vicino, con aria attenta. Quale Colosseo? Quello è il Teatro Marcello, non lo vedi?
Il Teatro Marcello…
Le foto non gliele ho mai spedite, né lei le ha mai richieste.