Ritorno –dopo 30 anni trascorsi in Spagna- nella capitale dell’impero che non è mai esistito. Non è che non sia mai tornato a Buenos Aires prima, ma quando l’ho fatto, l’ho fatto come un visitatore, come qualcuno che attraversa i propri ricordi. Ora il ritorno è diverso, ora vengo per restare e conoscere il mio posto qui. Chiamatela nostalgia, desiderio di appartenenza, sindrome del figliol prodigo o di Ulisse. Potete giudicare che sia la solitudine, la gratitudine, l’attaccamento, il tempo che mi postula verso una fine, verso un luogo, verso la “patria” che ha viaggiato con me.
Ritornare è partire, ma in una direzione diversa, un atto fondativo, un flirt con il futuro (a volte è più difficile tornare a casa che partire verso l’ignoto). Nelle mie valigie porto tre decenni di esperienze, altre usanze e paesaggi; e, soprattutto, altre parole per dare un nome al mondo o per fare l’amore. Alcune mi hanno conquistato, altre mi sembrano ancora aliene, fragili e sacrificabile.
La sensazione è strana. Ecco cosa succede quando si migra: che non sei né di qui né di là. Ma, a differenza della famosa canzone di Facundo Cabral, ho un’età, un futuro. Ecco perché tornerò. Per interrompere la bilocazione, per strofinare estremamente la lettera ⟨ll⟩ invece di renderla una fricativa mediopalatale sonora. Voglio prendere il colectivo (nome del bus in Argentina) e non el autobús (l’autobus come si dice in Spagna). Voglio conservare i miei vestiti in un placard (armadio), non in un armario empotrado (guardaroba a muro). Voglio capire, quando il River prende tre gol, che li segna, non che li subisce (modo di dire quando vine segnalato un gol in Spagna). Ora so che la parola boludo (stronzo) non ha equivalenti in altre varianti dello spagnolo. Per questo ritorno. Perché ricordo che durante la pandemia indossavo la mascarilla (le mascherine) e non el barbijo (le mascherine facciali), e che il mio frutto preferito era el durazno (la pesca), non el melocotón (la nettarina). E quando siamo riusciti a uscire dalla reclusione, non ho mai camminato per cuadras(isolati, blocchi), ma per manzanas (forma di dire isolati in Spagna).
Ho bisogno di un lifting per rimuovere dal mio viso quell`aspetto del passato, quegli sguardi pericolosi verso luoghi che non esistono più. Devo aggiornare il mio vocabolario, che è rimasto stantio negli anni ’90. Come faccio a dire adesso, in argentino, tirame las agujas (lanciami gli aghi, cioè, ´che ore sono?`–gli aghi indicano le lancette dell’orologio–); chupate esa mandarina (succhia quel mandarino), ´beccati questo`; mató mil (uccise mille), ´tutto bene`; cortar el rostro (tagliare il viso), vale a dire, ´restare indiferente`, ´ignorare qualcuno`? Sarò troppo antiquato se dico de frente march (marcia in prima línea, spostatevi) o cómo andamio (incrocio lessicale tra ¿Cómo andás?, ´Come stai?, ed andamio, ´impalcatura`)? Sono consapevole che ogni rovina sopravvive, che ogni residuo intimo è materiale per nuovi sogni. Per questo ritorno. Attraversando i confini, questa volta del linguaggio, dividendomi tra un mondo affettivo e l’altro, tra modi di parlare e di discernere.
Per questo ritorno. Perché il mondo si apre in modo completamente diverso a seconda del dialetto che si usa, perché sono immerso in uno shock culturale, in un continuo avanti e indietro. Perché sono costretto dalla relatività linguistica di Sapir-Whorf (il linguaggio plasma la mia visione del mondo) e dall’idea folle ma meravigliosa di Burroughs secondo cui il linguaggio è un virus in cui il soggetto viene manipolato. Come non identificarmi con quella magnifica opera di Diego Carreño (La lingua è un muscolo, ma il linguaggio è un virus) che mette in pratica la tesi di Burroughs e la porta fino a estremi esilaranti!
Che personaggio interpreta Diego! Un nevrotico ossessivo, un parafasico che cerca di portare a termine la sua tesi e si permette di capovolgere il linguaggio, cioè il potere, l’ordine. Procrastinando, è vero, ma con umorismo linguistico, che ha sempre il potenziale per agitare e sovvertire. In questo tentativo non riesce a trovare le parole giuste, annulla quelle conosciute e porta all’ambivalenza e ai lapsus. Un altro povero bilocato come me, contaminato da paronomasie, malapropismi (“Solo i cardinali sanno cantare l’Ave Maria. Certo, siccome i cardinali sono uccelli, allora sanno cantare l’Ave Maria, perché sono entrambi uccellini… Uccellini!”); mondegreen –errori di interpretazione che si commetono durante l´ascolto di un brano. Ad esempio: sentire un rayo misterioso arácnido en tu pelo (un misterioso fulmine, un aracnide nei tuoi capelli) invece di un rayo misterioso hará nido en tu pelo (un misterioso fulmine si anniderà nei tuoi capelli)– e calembour –raggruppamento di sillabe che alterano il significato delle parole– (“Padre Sito”, ´prete Sito` in vece di “padrecito”, ´piccolo prete`). Dopotutto, piccole rivoluzioni, come direbbe Orwell, come adattare il passato al presente, il mondo nuovo al vecchio, un senso dell’umorismo all’altro. Per questo ritorno. Per “laudare” i panni sporchi in pubblico, per avere la faccia “rosta”, senza cavare sangue da una “capa”, senza aggiungere benzina sul “gioco”, guardando con la coda dell’occhio quello che avevo lasciato.