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Perdido en la madre patria

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Por José luis Méndez

Foto: Prensa GBA

Vuelvo a la capital del imperio que nunca existió después de 30 años en España. No es que no haya vuelto otras veces, pero, al hacerlo, lo hacía como visitante, como aquel que está de paso por sus recuerdos. Ahora el regreso es distinto, ahora vengo a quedarme y conocer mi acá. Llámenle nostalgia, deseo de pertenencia, síndrome del hijo pródigo o de Ulises. Juzguen que es soledad, gratitud, apego, el tiempo que me postula a un fin, a un lugar, a la “matria” que viajó conmigo.

Volver es irse, pero en otra dirección, un acto fundacional, un coqueteo con el futuro (a veces es más difícil regresar a casa que marcharse rumbo a lo desconocido). En las valijas traigo tres décadas de vivencias, otras costumbres y paisajes; y, sobre todo, otras palabras para nombrar el mundo o para hacer el amor. Algunas me han conquistado, otras me siguen pareciendo ajenas, frágiles, prescindibles.
La sensación es extraña. Es lo que pasa cuando uno migra. Que no es de aquí ni de allá. Pero, al contrario que en la canción, tengo edad, porvenir. Por eso vuelvo. Para dejar de estar bilocado, para rehilar la (ll) en vez de hacerla fricativa medio palatal sonora. Quiero tomar el colectivo y no coger un autobús. Quiero guardar la ropa en un placar y no en un armario empotrado. Quiero entender, cuando River encaja tres goles, que los mete, no que los recibe. Ahora sé que la palabra boludo no tiene equivalente en otras variedades del español. Por eso vuelvo. Porque recuerdo que durante la pandemia usaba mascarillas y no barbijos, que mi fruta preferida era el melocotón y no el durazno. Y que cuando pudimos salir del confinamiento, jamás caminaba cuadras, sino manzanas.

Necesito un lifting que me quite del semblante esa cara de pasado, las miradas peligrosas a sitios que ya no existen. Se impone actualizar mi léxico anquilosado en los 90. ¿Cómo se dice ahora tírame las agujas, chúpate esa mandarina, mató mil, fetén fetén, cortar el rostro? ¿Estaré muy demodé si digo de frente march, qué andamio, chiche bombón, vos fumá? Soy consciente de que toda ruina sobrevive, que todo íntimo residuo es materia para nuevos sueños. Por eso vuelvo. Traspasando las fronteras, esta vez del lenguaje, dividiéndome entre un mundo afectivo y otro, entre maneras de hablar y discernir.

Por eso vuelvo. Porque el mundo se abre de una forma completamente diferente según un dialecto u otro, porque estoy inmerso en un choque cultural, en un continuo vaivén. Porque me apremian la relatividad lingüística de Sapir-Whorf (la lengua configura mi visión del mundo) y la disparatada pero preciosa idea de Burroughs de que el lenguaje es un virus donde el sujeto se encuentra manipulado. ¡Cómo no sentirme entonces identificado con esa magnífica obra de Diego Carreño (La lengua es un músculo, pero el lenguaje es un virus) que pone en práctica la tesis de Burroughs y la conduce hasta extremos hilarantes!

¡Qué personaje el que interpreta Diego! Un neurótico obsesivo, un parafásico que intenta acabar su tesis y se permite poner patas arriba el lenguaje, es decir, el poder, el orden. Procrastinando, pero con humor lingüístico, que siempre tiene potencial agitador, subversivo. En ese afán, no encuentra las palabras correctas, anula las conocidas y se aboca a la ambivalencia y al lapsus linguae. Otro pobre bilocado como yo, contaminado por paronomasias, malapropismos (“«Solo pueden los cardenales cantar el Ave María». Claro, porque los cardenales son aves, entonces pueden cantar el Ave María, porque los dos son pajeritos… ¡Pajaritos!”); pomporrutas (“Un rayo misterioso, arácnido en tu pelo”) y calambures (“El padre Sito”). Al fin y al cabo, pequeñas revoluciones, que diría Orwell, como acomodar el pasado al hoy, el nuevo mundo al viejo, un sentido del humor al otro. Por eso vuelvo. Para secar los trapos sucios al sol, para no aburrirme como una costra, sin pedir peras al colmo, sin echar más leña al juego, mirando por el rabino del ojo lo que dejé.

Preso nella madrepatria

Ritorno –dopo 30 anni trascorsi in Spagna- nella capitale dell’impero che non è mai esistito. Non è che non sia mai tornato a Buenos Aires prima, ma quando l’ho fatto, l’ho fatto come un visitatore, come qualcuno che attraversa i propri ricordi. Ora il ritorno è diverso, ora vengo per restare e conoscere il mio posto qui. Chiamatela nostalgia, desiderio di appartenenza, sindrome del figliol prodigo o di Ulisse. Potete giudicare che sia la solitudine, la gratitudine, l’attaccamento, il tempo che mi postula verso una fine, verso un luogo, verso la “patria” che ha viaggiato con me.

Ritornare è partire, ma in una direzione diversa, un atto fondativo, un flirt con il futuro (a volte è più difficile tornare a casa che partire verso l’ignoto). Nelle mie valigie porto tre decenni di esperienze, altre usanze e paesaggi; e, soprattutto, altre parole per dare un nome al mondo o per fare l’amore. Alcune mi hanno conquistato, altre mi sembrano ancora aliene, fragili e sacrificabile.

La sensazione è strana. Ecco cosa succede quando si migra: che non sei né di qui né di là. Ma, a differenza della famosa canzone di Facundo Cabral, ho un’età, un futuro. Ecco perché tornerò. Per interrompere la bilocazione, per strofinare estremamente la lettera ⟨ll⟩ invece di renderla una fricativa mediopalatale sonora. Voglio prendere il colectivo (nome del bus in Argentina) e non el autobús (l’autobus come si dice in Spagna). Voglio conservare i miei vestiti in un placard (armadio), non in un armario empotrado (guardaroba a muro). Voglio capire, quando il River prende tre gol, che li segna, non che li subisce (modo di dire quando vine segnalato un gol in Spagna). Ora so che la parola boludo (stronzo) non ha equivalenti in altre varianti dello spagnolo. Per questo ritorno. Perché ricordo che durante la pandemia indossavo la mascarilla (le mascherine) e non el barbijo (le mascherine facciali), e che il mio frutto preferito era el durazno (la pesca), non el melocotón (la nettarina). E quando siamo riusciti a uscire dalla reclusione, non ho mai camminato per cuadras(isolati, blocchi), ma per manzanas (forma di dire isolati in Spagna).

Ho bisogno di un lifting per rimuovere dal mio viso quell`aspetto del passato, quegli sguardi pericolosi verso luoghi che non esistono più. Devo aggiornare il mio vocabolario, che è rimasto stantio negli anni ’90. Come faccio a dire adesso, in argentino, tirame las agujas (lanciami gli aghi, cioè, ´che ore sono?`–gli aghi indicano le lancette dell’orologio–); chupate esa mandarina (succhia quel mandarino), ´beccati questo`; mató mil (uccise mille), ´tutto bene`; cortar el rostro (tagliare il viso), vale a dire, ´restare indiferente`, ´ignorare qualcuno`? Sarò troppo antiquato se dico de frente march (marcia in prima línea, spostatevi) o cómo andamio (incrocio lessicale tra ¿Cómo andás?, ´Come stai?, ed andamio, ´impalcatura`)? Sono consapevole che ogni rovina sopravvive, che ogni residuo intimo è materiale per nuovi sogni. Per questo ritorno. Attraversando i confini, questa volta del linguaggio, dividendomi tra un mondo affettivo e l’altro, tra modi di parlare e di discernere.

Per questo ritorno. Perché il mondo si apre in modo completamente diverso a seconda del dialetto che si usa, perché sono immerso in uno shock culturale, in un continuo avanti e indietro. Perché sono costretto dalla relatività linguistica di Sapir-Whorf (il linguaggio plasma la mia visione del mondo) e dall’idea folle ma meravigliosa di Burroughs secondo cui il linguaggio è un virus in cui il soggetto viene manipolato. Come non identificarmi con quella magnifica opera di Diego Carreño (La lingua è un muscolo, ma il linguaggio è un virus) che mette in pratica la tesi di Burroughs e la porta fino a estremi esilaranti!

Che personaggio interpreta Diego! Un nevrotico ossessivo, un parafasico che cerca di portare a termine la sua tesi e si permette di capovolgere il linguaggio, cioè il potere, l’ordine. Procrastinando, è vero, ma con umorismo linguistico, che ha sempre il potenziale per agitare e sovvertire. In questo tentativo non riesce a trovare le parole giuste, annulla quelle conosciute e porta all’ambivalenza e ai lapsus. Un altro povero bilocato come me, contaminato da paronomasie, malapropismi (“Solo i cardinali sanno cantare l’Ave Maria. Certo, siccome i cardinali sono uccelli, allora sanno cantare l’Ave Maria, perché sono entrambi uccellini… Uccellini!”); mondegreen –errori di interpretazione che si commetono durante l´ascolto di un brano. Ad esempio: sentire un rayo misterioso arácnido en tu pelo (un misterioso fulmine, un aracnide nei tuoi capelli) invece di un rayo misterioso hará nido en tu pelo (un misterioso fulmine si anniderà nei tuoi capelli)– e calembour –raggruppamento di sillabe che alterano il significato delle parole– (“Padre Sito”, ´prete Sito` in vece di “padrecito”, ´piccolo prete`). Dopotutto, piccole rivoluzioni, come direbbe Orwell, come adattare il passato al presente, il mondo nuovo al vecchio, un senso dell’umorismo all’altro. Per questo ritorno. Per “laudare” i panni sporchi in pubblico, per avere la faccia “rosta”, senza cavare sangue da una “capa”, senza aggiungere benzina sul “gioco”, guardando con la coda dell’occhio quello che avevo lasciato.

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